Una città non è fatta solo dalle sue strade, dai suoi palazzi, dalle sue infrastrutture fisiche: una città è fatta da tutte queste cose (che sono il suo hardware), più il sapere locale (il suo software) che consente di mantenere, adattare, evolvere, migliorare la sua infrastruttura.

E’ necessario soffermarsi qualche istante su una considerazione spiazzante: dei due elementi (hardware e software), quello fondante è il sapere locale. Basta pensare che se una città viene distrutta da un terremoto, essa può essere ricostruita e mantenere la propria identità, a condizione che il sapere locale sia rimasto intonso, a presidio dei contorni dell’identità locale.

Quindi, la città è soprattutto software. Le componenti di questo software hanno sede nella cognizione dei suoi cittadini, giacché la città, in fondo, è fatta soprattutto tutti quelli che la vivono.

Riflettere sulla direzione che una città intende prendere nel medio e lungo termine, significa quindi lavorare per aggiornare il suo software.

 In questo lavoro nessun esperto, per quanto bravo, può essere più efficace dello sforzo combinato delle persone che vivono la città, sia essi residenti o piuttosto ‘city users’. Quanto più si riesce a mobilitare la riserva di informazioni, competenza e passione dei ‘fruitori di città’, più le sue traiettorie future saranno creative, intelligenti, sostenibili.

Tra le azioni che si possono intraprendere in questo lavoro di aggiornamento costante, ve ne sono alcune di poco costose, ma molto significative.

La prima è una community online aperta, con la quale si cerca di incoraggiare i ‘fruitori di città che hanno esperienze o punti di vista interessanti a condividerli, per rivelare le tante cose che in una città si fanno senza che le istituzioni le conoscano. La community online aperta deve rappresentare il primo salto di qualità della riflessione sulla città: bando quindi alle scazzate telematiche, a quella specie di pollaio con troppi galli nel quale non si conclude mai niente. Il ‘patto sociale’ a base del sito di community deve essere di collaborazione costruttiva, nel quale tutti si impegnano in una discussione del livello più alto possibile.

La seconda azione è una politica di open data. Il rilascio di dati pubblici in formato aperto è un tema caldo in tutta Italia, e può contare su un piccolo ma combattivo pezzo di società civile che lo difende con passione (Spaghetti Open Data). Rilasciare dati di buona qualità significa investire nell’intelligenza collettiva dei cittadini, che hanno bisogno di buone informazioni per fornire buoni contributi alle decisioni pubbliche.

Il rilascio dei dati che le amministrazioni pubbliche raccolgono per svolgere le loro funzioni garantirebbero enormi basi di dati sull’ambiente, sulla salute, sulle opere pubbliche, sull’ubicazione degli esercizi commerciali e dei musei. Se venissero rilasciate, i cittadini potrebbero usarle per migliorare il controllo democratico sull’operato dei governanti, o per creare nuovi servizi online. In questo modo si possono inventare sistemi bottom-up per tutti i temi caldi della vita cittadina Le imprese non possono permetterselo: hanno il dovere di fare profitti, e questo significa percorrere solo strade che conducono a flussi di reddito in tempi brevi e ragionevolmente prevedibili. I cittadini non hanno questi problemi, e possono permettersi di esplorare soluzioni anche molto visionarie, e semplicemente scartarle se si rivelano non praticabili. Risultato: molti più tentativi, molti più fallimenti, ma, con ogni probabilità, più successi.

In questo modo una città può dimostrare di avere l’attitudine di una smart city, puntando sulla decentralizzazione del sapere e delle decisioni, creando spazio e promuovendo la creatività di tutti i soggetti. La strada è lunga, e tutte queste mosse potrebbero benissimo fallire, ma è necessario intraprenderla!

8 luglio 2013