Si potrebbe cominciare con una provocazione, sostenendo che le imprese creative teoricamente non esistono, tanto che dibattere sul fatto che si debbano definire “creative” o “culturali”, e quale dei due termini sussuma l’altro, suona come una questione di lana caprina. Ma in effetti l’ambiguità lessicale non fa altro che confermare la provocazione: esse formalmente non esistono, non trovano rispondenza legislativa, specificità burocratico-amministrativa, né spazio nella letteratura ufficiale, perché in effetti nessuno sa esattamente definirle – ben oltre il livello lessicale – e quindi da dove cominciare per censirle, regolarle, e di conseguenza nominarle in modo omogeneo.
Esistono però nella pratica (su questo ci concentreremo in questa sede, permettendoci di utilizzare i due aggettivi come sinonimi): seppur variamente definite e sotto variegate forme di personalità giuridica, non solo esistono, ma presentano una numerosità e livelli di fatturato tali paradossalmente spropositati rispetto ai più noti e non edificanti dati relativi alla partecipazione culturale italiana. E quindi sempre più spesso se ne parla, come se l’imprenditore culturale o creativo che sia, consapevole tanto della propria teorica inesistenza quanto della propria rilevanza nel tessuto socioeconomico del Paese, cercasse di rivelarsi, trovare propri simili, sentirsi meno solo e meno chisciottesco. O carbonaro, a seconda dei punti di vista: ai margini del sistema imprenditoriale ufficiale (qualche associazione di categoria inizia a sensibilizzarsi al tema, ma si deve scorrere tutta la lista dei codici ATECO per rintracciare le Attività Creative, Artistiche ed Intrattenimento!), l’imprenditore culturale viene guardato con sospetto anche e soprattutto dagli altri operatori culturali che si considerano “puri” e che a priori non ammettono alcuna associazione tra le parole cultura ed imprenditoria. Come se il concetto di imprenditoria fosse strettamente e univocamente legato all’idea di profitto e di speculazione. Del resto, la figura dell’imprenditore in generale è assimilata dalla vulgata al capitalista orwelliano o a quel 1% – un percento, non è un refuso – che dirige le grandi aziende nazionali: un affarista, una persona compromessa, tendenzialmente priva di valori etici.
Eppure la realtà è come sempre ben più ricca di sfumature e, nella fattispecie, fotografa un tessuto imprenditoriale piuttosto diverso: secondo la tassonomia OCSE e i dati ISTAT , infatti, il 94% delle imprese italiane sono micro-imprese, cioè aziende che impiegano da 1 a 9 addetti, e il 5% sono piccole (10-49 addetti). All’interno del 99% che completa l’1% di cui sopra, il 76,9% presenta addirittura un solo dipendente. Tuttavia questi numeri schiaccianti non hanno evidentemente l’appeal mediatico delle grandi industrie e l’esercito della micro-imprenditoria italiana non riesce a far massa critica né notizia, a meno che qualche micro-imprenditore non compia gesti insani davanti alle telecamere o a Montecitorio. Ma questo non cambia il fatto che il 99% degli imprenditori del nostro Paese tenga alla propria azienda come a un figlio, perché è l’azienda stessa a configurarsi come una famiglia, qualora non lo sia a tutti gli effetti.
L’imprenditore italiano medio, aberrazioni escluse, è una persona che si assume nel proprio piccolo la responsabilità di un agire che potenzialmente ha risvolti positivi in termini di produzione di reddito, di occupazione e di rivitalizzazione di un territorio e che in caso negativo paga di tasca propria. In queste micro-realtà, i dipendenti sono persone con cui condivide la maggior parte della propria quotidianità, con cui salda rapporti di amicizia, di fiducia reciproca. Le piccole vittorie e le grandi sconfitte, patrimonio esperienziale condiviso. I guadagni, principalmente una fonte di sussistenza e non utili da giocare sulla roulette della finanza internazionale.
Un micro-imprenditore culturale nell’analizzare questi dati, quindi, prende fiducia. Perché rileva come in fondo la configurazione della propria azienda non sia poi così diversa da quelle cosiddette tradizionali: l’impresa creativa si inserisce perfettamente nel tessuto economico italiano. Più che un’anomalia formale, quindi, ciò che lo distingue è la sostanza del suo business: un prodotto complesso – quello culturale – talmente multiforme e cangiante che gli stessi operatori del settore hanno difficoltà ad afferrarlo, a dargli un nome, una classificazione. Sanno che esiste, che ce n’è bisogno, ma sanno anche che la strada è tutt’altro che spianata, probabilmente – e non a caso – proprio a causa della triste correlazione tra scarsa partecipazione culturale e l’apertura mentale e il dinamismo di una società verso idee innovative e pensieri divergenti.
Questo è lo scoglio dell’imprenditore culturale nell’Italia dell’oggi: egli maneggia un prodotto dinamico, innovativo e divergente per natura, caratteristiche che lo differenziano da ogni altro tipo di prodotto manifatturiero o servizio tradizionale. La componente creativa e il valore dell’originalità dell’idea (e quindi il loro costo, così difficilmente quantificabile) prevalgono inevitabilmente sugli altri elementi di produzione, e nonostante l’apporto massiccio delle nuove tecnologie, restano non serializzabili e faticosamente negoziabili – pena l’invalidamento della dimensione creativa stessa. Altrettanto per natura, le imprese culturali non hanno a che fare con clienti, ma con infinite diverse persone che compongono (o devono essere sempre più stimolate a comporre) il proprio pubblico di riferimento.
Una dinamica che ha poco a che fare con targetizzazioni rigide, indagini e strategie di marketing, ma si configura di più come un’interazione leale e continuativa tra pari e con il proprio territorio di appartenenza, funzionale a co-generare il prodotto stesso. Ciononostante, l’imprenditore culturale – al pari di ogni altro imprenditore – deve saper conciliare questi aspetti con la loro sostenibilità economica, perché indipendentemente da tutti i valori positivi che (parte della) società riconosce ai beni e alle attività culturali, resta pur sempre l’obbligo di pareggio di bilancio, alla fine dell’anno. Un bilancio che a onor del vero va composto e “inventato” ogni giorno, in un mix altrettanto creativo di reperimento delle risorse, considerato che nella cultura il prezzo di vendita rappresenta solo in piccola parte il valore del prodotto e quindi del piano di copertura dei costi di produzione. Fare impresa in ambito culturale, quindi, è una piccola grande impresa quotidiana, che rigetta il retaggio assistenzialista che lo Stato ha sempre riservato al settore (ma che inevitabilmente è collassato in tempo di crisi, rivelando tutte le storture ad esso connesse) e rivendica la propria autonomia e legittimità.
Per fare ciò, tuttavia, è necessario che gli operatori culturali in primis accettino l’esigenza di configurarsi come interlocutori economici a tutti gli effetti, non per questo forzando l’agire culturale all’interno di dinamiche di mercato “tradizionali” a cui intrinsecamente non appartiene, ma impegnandosi a costruire attorno ad esso un mercato ad hoc, che rispetti la specificità del settore e si impegni a sdoganarne la validità quale leva economica a livello nazionale.
A livello locale e in modo frammentario, infatti, sono molti gli operatori della cultura e della creatività che stanno già intraprendendo – è proprio il caso di dirlo – questa direzione. E la bontà della direzione evidentemente è tale per cui piano piano anche le Istituzioni iniziano a tenere d’occhio e incoraggiare il fenomeno. Non a caso, solo nell’ultimo anno sono fiorite innumerevoli iniziative di sostegno all’imprenditoria culturale, con particolare attenzione rivolta a quel momento tanto cruciale quanto ormai di moda come la fase di start-up e ogni sorta di incubatori connessi. Il che, sia chiaro, è un bene. Tuttavia, tanta enfasi rischia di creare una retorica capziosa, che da un lato è tende a dare per scontato che l’impresa culturale nasca oggi, e non ci siano realtà ed esperienze pregresse (che possono invece fare scuola in termini pratici e non solo teorici), dall’altro omette – o quantomeno sottovaluta – le complessità legate alla fase di stabilizzazione di un’azienda. Del resto, se i dati sui tassi di mortalità delle start-up, per quanto non univocamente reperibili, aleggiano tutti tra il 50 e il 70% sull’arco dei cinque anni (generalmente nel periodo successivo al termine dei sostegni all’impresa stessa), è necessario riflettere. Riflettere non per smorzare il coraggio e gli entusiasmi di chi – tanto più in questa fase economica recessiva – decide di fare impresa, ma per aumentare la sua consapevolezza (e quindi le possibilità di successo) rispetto a ciò che accade dopo che si spengono i riflettori sull’”effetto novità”.
Per questa ragione, dopo tanta attenzione rivolta agli avviamenti, alla managerializzazione di un’idea creativa, finanche all’esasperazione del concetto di start-up e innovazione, è importante ascoltare il punto di vista, rigorosamente non esaustivo, di quelle aziende culturali che – fino a prova contraria – hanno saputo non solo innovare ma r-innovarsi, resistendo negli anni a sé stesse e al contesto. Questo perché felicità raggiunta, per l’appunto, l’impresa creativa cammina in un continuo di evoluzioni per rimanere in equilibrio sulla lama, per confermare ogni giorno la validità della propria esistenza e negoziando continuamente il proprio posizionamento all’interno di questo complesso panorama imprenditoriale, culturale e non.
Per fare ciò, stando a quanto sommariamente descritto finora e sulla base delle esperienze dirette, appare inevitabile per un operatore del settore non smettere mai di:
• ripensare e plasmare la propria idea imprenditoriale e artistica alla luce degli andamenti economici e contestuali, senza avere il timore (o l’arroganza) di comprometterne in questo modo il valore;
• adeguare e arricchire la propria struttura organizzativa, alla luce dei cambiamenti di cui sopra, della complessità e delle sfaccettature del comparto culturale e creativo, trovando quel punto di equilibrio che non sacrifichi la dimensione artistica dell’azione, ma tuttavia non trascuri l’importanza di sviluppare competenze amministrative, commerciali e finanziarie al pari di ogni altra azienda;
• rimanere in ascolto dinamico con il proprio territorio, dove per territorio non si intende lo spazio fisico in cui ha sede la propria azienda, ma tutte quelle dimensioni materiali e immateriali coperte dal proprio raggio d’azione. All’interno di questo perimetro è
- fondamentale costruire relazioni positive a monte – con le istituzioni di riferimento, che, indipendentemente dall’elargizione o meno di contributi, rimangono un interlocutore primario del settore culturale – ma soprattutto a valle, lavorando su e con i propri pubblici;
- implementare e consolidare la propria rete di collaborazioni, puntando alla costruzione di relazioni fiduciarie continuative. Abituarsi a condividere rischi di impresa, a co-progettare e contaminarsi vicendevolmente non solo rafforza la posizione sul mercato di ogni singola impresa, ma soprattutto consente di immaginare e sviluppare nuove forme di sinergia tra soggetti complementari all’interno delle diverse filiere culturali. Superando l’aspetto ideologico di dicotomie come culturale/non culturale, profit/non profit, si potrebbe più facilmente supportare l’ibridazione tra mondi diversi ma spesso tangenti, di cui non beneficerebbero i soli imprenditori, ma anche le associazioni, le istituzioni ed i singoli artisti ed operatori, nel rispetto delle singole specificità, con l’obiettivo ultimo di far evolvere e maturare il settore nel suo complesso.
Ovviamente non ci sono strade univoche per affrontare queste criticità, tanto meno all’interno di un’azienda culturale, che dovrà dispiegare tutta la propria portata creativa anche e soprattutto in queste direzioni. Indubbiamente un confronto tra operatori del settore (e di settori contigui o diametralmente opposti), non può che arricchire la ricerca di nuove possibili soluzioni, che non aspirano all’individuazione di una “one best way” tayloriana, ma di tante best ways in grado di rispondere al caleidoscopico settore culturale e insieme legittimarlo in modo unitario agli occhi del sistema economico italiano.
Convegno “Piccole imprese (creative) crescono”
Testo introduttivo a cura di Chiara Galloni
ArtLab 13, Lecce 28 settembre 2013