Un articolo appena uscito sul New York Times segnala che in molte università americane la creatività ha ormai raggiunto lo status di disciplina accademica.

E, attenzione, non stiamo parlando di corsi di laurea che studiano le dinamiche della creatività sotto il profilo psicologico o manageriale: quelli già esistono. Stiamo parlando di interi corsi volti a sviluppare un approccio creativo negli studenti.

A pensarci bene, però, la notizia vera non è il fatto che i creative studies si stiano moltiplicando come funghi nelle università, da New York a Philadelphia, a San Francisco: dopotutto, nelle pieghe del sistema universitario americano si annidano i corsi più strani.

 

La notizia vera è il fatto stesso che il NYTimes dedichi a tutto ciò un lungo articolo, ricordando dopo qualche riga che già da una ventina d’anni la Bloom’s Taxonomy è stata rivoluzionata, ponendo la capacità creativa al vertice degli obiettivi educativi.

Il NYTimes elenca anche diverse evidenze: secondo una ricerca I.B.M. che ha coinvolto 1500 amministratori delegati in 33 diversi settori industriali, la creatività è il fattore cruciale di successo. Oggi “creatività” è la parola più in voga tra i profili di LinkedIn. E l’insegnamento del pensiero creativo entra di prepotenza perfino nei corsi di scienze, di ingegneria, di legge, insieme all’addestramento necessario per affrontare l’ambiguità e i fallimenti che con ogni processo creativo sono connaturati.

Il motivo della proliferazione è semplice: per esempio, gli studenti iscritti a Justice e Safety pensano che, dopo aver studiato i problemi relativi a Giustizia e Sicurezza, avranno bisogno di un bel po’ di creatività per provare a risolverli. E il ragionamento non fa una piega. Intanto l’Economist pubblica un articolo per molti versi speculare a quello uscito sul NYTimes, dal titolo “Chi non sa, insegna”. Riguarda le scuole di Business Administration che, schiacciate da una concorrenza sempre più agguerrita, rinunciano a fare ricerca e appaiono incapaci di praticare su se stesse il rinnovamento manageriale e strategico che pure affermano di insegnare. Esortazione nemmeno troppo implicita: “forza, sviluppate il vostro stesso cambiamento”.

In tutto questo gran fermento c’é da segnalare che l’approccio americano al tema della creatività è … americano, appunto. Cioè, pragmatico, vagamente muscolare e fondato su una ricetta semplice: tanti soldi + tanto addestramento. Tra l’altro i corsi di creatività, a uno sguardo europeo, possono risultare paradossalmente troppo pieni di procedure e ingiunzioni (pensa fuori dagli schemi! Produci più alternative che puoi! Sii rilassato! Approfondisci! Finalizza!).

Da noi, per rianimare la stremata capacità creativa nazionale basterebbe avere un ambiente non così ostile a chi cerca, tra mille difficoltà, di trovare soluzioni innovative o di svolgere bistrattate e malpagate professioni creative. Basterebbe un sistema educativo appena un po’ più attento a motivare e coinvolgere gli studenti. Basterebbe rompere qualche stereotipo e qualche soffitto di cristallo e liberare un po’ della creatività delle donne. Basterebbe non rimangiarsi le detrazioni fiscali sull’acquisto di libri. Basterebbe dire che la cultura è una risorsa, e trattarla come tale.

Ma già: da questa parte dell’oceano, è come chiedere la luna

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